Valerio Zurlini, Mattioli 1885, 2009
Pagine di un diario veneziano
Opps! sembra che questo titolo sia esaurito!
Inviaci una richiesta che cerchiamo in fondo agli scaffali
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Quell’inverno del 1963 a Venezia cadde molta neve. Nei primissimi giorni di gennaio il vento cessò di colpo, la temperatura sembrò più mite e per quasi una settimana da un cielo plumbeo nevicò a fiocchi lenti e spessi: la gente era allegra perché era vera neve che faceva presa sulle fondamenta e sui campi e si accumulava senza sciogliersi sugli alberi schelettrici dei giardini, sui tetti, sugli angeli bianchi della Salute e sulle cupole delle chiese.
Poi dal Nord un gelido vento di bora rase la pianura da Trieste ad Aquileia fino alla laguna, rasserenò il cielo e trasformò la neve farinosa in uno spesso strato di ghiaccio. La temperatura scese sotto zero e il freddo sole settentrionale non riuscì a scioglierla. Furono giornate limpide e terse, da Burano e Torcello si scorgevano nette e rosate le prealpi del Cadore, Venezia si trasfigurò con una grazia miracolosa superiore ad ogni possibilità di incanto.
Ritornando verso sera alla casa dove abitavo in Dorsoduro, appena voltato l’angolo che immette nel Rio Terà dei Catecumeni, alle spalle della Salute, talvolta un coro di voci infantili scendeva ovattato dai piani superiori del Conservatorio. Brani segreti di Benedetto Marcello, di Vivaldi o di Albinoni cui rispondevano le rare voci dei canali. Sul fondo della larga calle aperta sulle zattere ogni tanto compariva l’assurda e gigantesca sagoma di una petroliera trainata da un rimorchiatore. Passava fra le case basse, sovrastandole, diretta verso mari lontani, fitta di luci, simile ad una invenzione di Savino o di Magritte, un’anziana corpulenta signora straniera con un botoletto ringhioso al guinzaglio.
Poi dal Nord un gelido vento di bora rase la pianura da Trieste ad Aquileia fino alla laguna, rasserenò il cielo e trasformò la neve farinosa in uno spesso strato di ghiaccio. La temperatura scese sotto zero e il freddo sole settentrionale non riuscì a scioglierla. Furono giornate limpide e terse, da Burano e Torcello si scorgevano nette e rosate le prealpi del Cadore, Venezia si trasfigurò con una grazia miracolosa superiore ad ogni possibilità di incanto.
Ritornando verso sera alla casa dove abitavo in Dorsoduro, appena voltato l’angolo che immette nel Rio Terà dei Catecumeni, alle spalle della Salute, talvolta un coro di voci infantili scendeva ovattato dai piani superiori del Conservatorio. Brani segreti di Benedetto Marcello, di Vivaldi o di Albinoni cui rispondevano le rare voci dei canali. Sul fondo della larga calle aperta sulle zattere ogni tanto compariva l’assurda e gigantesca sagoma di una petroliera trainata da un rimorchiatore. Passava fra le case basse, sovrastandole, diretta verso mari lontani, fitta di luci, simile ad una invenzione di Savino o di Magritte, un’anziana corpulenta signora straniera con un botoletto ringhioso al guinzaglio.